Per un Master of Wine il concetto di Terroir è un pò come la Forza in Star Wars ovvero un sottile fluido che attraverso la terra arriva e permane nel vino e ogni tentativo di degustazione e di creazione del vino è riconducibile a leggere e far ritrovare in un bicchiere il concetto appunto di terroir. Terroir che è, nelle parole appunto di David Gleave, fondatore di Liberty Wine, udite giovedì 12 e venerdì 13 (alla faccia delle superstizioni) al Croce di Malta a Montecatini, “Soil, Climate, Aspect, Luminosity, Ventillation, Diurnal variation, Grape variety” ma anche il modo con cui l’uomo interviene su questo ovvero “Temperature, Cuvaison, Oak, Cleanliness, Bottling“. Da questo “statement” abbiamo discusso per un pò su come da questo assioma si possono derivare la quasi totalità degli aspetti che caratterizzano un vino e la sua descrizione. Si può essere più o meno d’accordo su questa vision ma vi assicuro che ieri, soprattutto attraverso le numerose degustazioni alla cieca effettuate (qui tutte le foto dei vini) il concetto è risultato davvero chiaro, anzi “bright” (cristallino?) .
Molto interessante anche l’illustrazione della scheda di degustazione dei “master” con alcune voci da noi poco considerate come la stima del prezzo, il carattere dell’acidità e la valutazione della qualità del tannino, davvero utile.
Ieri con Cristiano Cini, vicecampione nazionale, altri sommelier e membri della GEN nazionale (tra cui Antonello Maietta) e delegati da tutta Italia (Isole e Sud Italia compresi), abbiamo affrontato la degustazione bendata di una serie di vini che differivano praticamente solo per il terroir appunto, a parità di pratica enologica e vitigno. E così ci siamo trovati davanti a due Sauvignon Blanc, uno NeoZelandese della Delta Wines, e uno del nostro Collio, ovvero quello di Sgubin e le note di profumi e le sensazioni “on the palate” non potevano essere più diverse. Però, wow, ero riuscito a beccarli entrambi come provenienza, addirittura indicando proprio Collio per l’Italiano e Marlborough per il neozelandese.
Stesso discorso per il confronto sul Syrah, stavolta Australia Adelaide Hills Shaw Smith “contro” il nostro illustre Cortona Tenimenti d’Alessandro Il Bosco. Anche qui, a dispetto dei pregiudizi (miei compresi!) che vedono gli Australiani densi marmellatosi e carichi vengono sfatati da un croccantissimo e fresco syrah (anzi Shiraz) pepato bianco con un colore incantevole e un palato delicato e fresco, davvero accattivante. Al cospetto di questo Australiano, il pur notevole “Il Bosco” arrancava un pò e pareva l’australiano di turno…tant’è che quasi nessuno lo aveva votato come Italiano o europeo. (Ovviamente io avevo votato il primo come Syrah sudamericano e il secondo come un Barossa Valley).
Ultima degustazione della mattinata e tocca a due blend a maggioranza Cabernet con Chasse Spleen 2003 contro (di nuovo) Australia, un interessantissimo Culeen Diana Madelein 2004 che ha surclassato l’illustre bordolese con una eleganza di frutto e spezia quasi inaudite (per me) in un vino australiano a base cabernet. Certo che la Margaret River è ben poco conosciuta ma merita davvero di essere ri-scoperta da molti IMHO. Io avevo optato per un Cabernet Sangiovese sullo Chasse Spleen (tipo Tignanello per dirla tutta) e per un blend bordolese cileno per il primo (stile Don Melchor di Concha y Toro).
Altre prove nel pomeriggio, ancora più interesanti con 3 “Chards” immediatamente riconosciuti come tali dalla platea ma quando siamo andati a cercare di individuare i terroir di provenienza…sul Cote de Beaune quasi tutti sicuri di essere nel Nuovo Mondo, un sacco di Chablis per il Sanct Valentin (l’unico che invece ho riconosciuto al volo come altoatesino) e ancora Francia per il notevole HellFire Bay Australiano. Insomma, vatti a fidare di un “innocuo” Chardonnay!
Gran finale con la chimera di ogni terroirista che si rispetti ovvero il Pinot Noir, la morte nera di ogni degustatore sedicente esperto, che ha messo affiancati Alto Adige, Martinborough e Borgogna. E qui nonostante abbia da poco finito di bere 50 Pinot Neri altoatesini e neanche un mese fa proprio sua maestà Ata Rangi (ma il 2002) ecco che riesco a riconoscere solo lo Chambolle Musigny 2006 di Boisset mentre sparo su California per il Mazzon di Gottardi e un bel Chambertin Premier Cru per il neozelandese. Imparo quindi che il profumo tipico della spezia altoatesina è davvero riconoscibile e che la felce di sottobosco è tipica dei Pinot Noir della Nuova Zelanda (del resto basterebbe guardare la maglietta degli All Blacks!). Su Chambolle Musigny mi ha aiutato una recente degu dalla Heres che ne aveva portato alcuni campioni a Prato ma direi che su Pinot Neri così giovani non è mai facile indovinare la provenienza.
Conclusione di giornata consolante sulle parole di David che ci assicura che il riconoscimento alla cieca di un vino è “based on luck more than skill” e che in realtà per professionisti come i Master of Wine (e anche direi i sommelier) è molto più importante sape attribuire un prezzo ai vini piuttosto che dire di che vino si tratti.
Complimenti all’AIS per la bella e interessante iniziativa e per avermi invitato, e a Roberto Bellini per l’ospitalità in quel di Montecatini, sempre di alto livello.
A quando la prossima? mi devo rifare subito, quel Sangiovese nello Chasse Spleen grida vendetta!!!