Al mare come vedete mi sono portato i compiti per le vacanza…ovvero tutti quei vini che nel normale tran tran di tutti i giorni non riesco a (de)gustarmi come vorrei, me li cumulo in una cassetta che porto con me in vacanza, tempo notoriamente in cui si dovrebbe avere qualche minuti in più per le funzioni preferite. Nel mio caso, provare vini fuori dal solito. E l’occasione stavolta viene da un intervento di un mio lettore Andrea Pagliantini che ha riconosciuto nella foto dei vini che avevo raccolto per il mio 34° compleanno qualche settimana fa un vino del Chianti Classico cui suo padre aveva lavorato e che aveva sempre dipinto come favoloso e soprattutto uno di quei vini “fatti come si facevano una volta, cioè con l’uva”.
Luoghi comuni a parte, è sempre interessante e istruttivo per un sommelier cimentarsi con annate così vecchie perchè colore, profumo e struttura dei vini sono così stravolti da costringerti a rivedere alcuni dei canoni usuali di degustazione dei vini. In particolare riscoprire una serie di descrittori aromatici veramente difficili da utilizzare se non in verticali molto profonde.
Ma vediamo cosa è rimasto di questo Chianti di ben 34 anni fa…
Innanzitutto due righe sulla conservazione. Si tratta di una bottiglia che ho trovato in cantina da Burde la cui temperatura varia tra i 15° invernali e i 22° estivi con umidità ideale intorno al 65%. Si trova in cantina da Burde almeno dai primi anni 80 ma proveniva da una collezione privata di cui ignoro dati di conservazione. Assaggiare questo vino era quindi sia provare le capacità della cantina di Burde (arrivata intorno ormai alle 10mila bottiglie…) e anche capire cosa era il tanto vituperato Chianti degli anni 70 (ovvero quello pre-Tignanello). Il tappo si è presentato coperto di muffa e altro materiale nerastro polveroso ed era piuttosto cedevole ma al momento di girare il verme del cavatappi al suo interno ha offerto una certa resistenza e soprattutto si è udito un distinto “ssss” di fuoriuscita d’aria che mi rincuorato sul fatto che comunque aveva retto nel tempo.
Il vino si è presentato di un ovvio color marrone granato con lampi mogano piuttosto intriganti, non arancione o ossidazione spinta per intenderci.
Al naso stranamente si è aperto quasi subito e ha cominciato a spandere profumi decisamente piacevoli!
Grande è stata la mia sorpresa perchè mi immaginavo di dover aspettare almeno qualche minuto…invece ecco che una netta nota di prugna secca si faceva strada tra sentori di leggero goudron e deciso humus e sottobosco autunnale. Col tempo dal bicchiere sono usciti anche thè nero, fiori essiccati, un bellissimo aroma di sandalo, e tutt’intorno si delineava un quadro ancora più suadente di ferro, castagne, anice, paraffina. Tutte note degne di un gran Sangiovese, sicuramente aiutato da un pò di Canaiolo (ma anche qualche uva bianca ci sarà stata di sicuro). Note di profumi che in effetti ricordano più un Brunello che un Chianti Classico! E volendo fare un esempio più vicino, molto simili a quelli che ho sentito di recente alla Verticale di Bucerchiale della Fattoria Selvapiana alle Corti a San Casciano dove un grandioso 1966 tolse il fiato a tutti gli intervenuti (anche lì Sangiovese, Canaiolo e Trebbiano, però Chianti Rufina, più avvezzo a certi exploit di longevità). Tra l’altro, nel mio San Donato era presente anche il bellissimo profumo di “cesto di selvaggina morta” coniato dal grande Paolo Baracchino
In bocca, il San Donato 1973 (devo scriverlo di nuovo per crederci!) ha dimostrato una bevibilità estrema con una acidità ancora presente in grado di bilanciare insieme ai tannini il grado alcolico e far sì che il vino si dimostrasse anche al gusto inequivocabilmente VIVO e capace di regalare emozioni. Ha deliziato la nostra cena a base di bistecca alla fiorentina la cui succulenza era ben gestita dal tannino e dall’alcol residuale. Certo il corpo non era più quello di un tempo ma faceva comunque bene la sua parte. Persistenza nell’ordine dei 4-5 secondi con nota di liquiriza netta, tabacco da masticare e marcata sensazione calorica al palato.
Che dire? Di sicuro non era un vino che all’epoca rientrava tra quelli considerati da conservare per decenni, frutto anche di un’annata buona ma non certo eccezionale…insomma un vino da tutti i giorni, da bersi giovani con due anni o 3 sulle spalle…e invece di anni ne sono passati 34 e questo vino sta ancora qui in piedi accanto a me ed è vivo e vitale, capace di dare una emozione rara alla mia tavola. Dico solo grazie al babbo di Andrea Pallantini di aver lavorato così bene allora e soprattutto continuo a pensare che togliere la possibilità di usare le uve bianche dal Chianti Classico sia stata più una mossa politica che enologica…
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