Si può essere sommelier e parlare di vino senza mai rammentarlo? Come si vive e come ci si ambienta in una città nuova e sconosciuta e come si impara ad amare un luogo per i suoi profumi? E, non ultimo, c i si può innamorare di una città attraverso i suoi odori?
Non vi preoccupate, non sarò io a rispondervi, stavolta lascio il blog a Giulia, già la conoscete ormai (e se avete un pò di tempo qui ci sono alcune prove di quello che sarebbe il suo lavoro, ovvero regista, e sceneggiatrice horror di Imago Mortis, film in uscita a Gennaio 2009).
Buona lettura, soprattutto per chi abita a Roma ovviamente… (foto Giulia Graglia).
Il primo impatto forte con un’altra città è quello del naso. Per anni fai le stesse strade, sempre alla stessa ora, e vieni investito in sequenza dai profumi tipici di quella zona o di quell’isolato…
Sulla via per andare a scuola, prima il panettiere, con l’odore della crosta sottile delle ciabattine o delle spaccatelle o della mollica spessa della pizza bianca, un topos quasi letterario per tutti gli studenti torinesi. Poi due o tre bar, vera nostalgia dei miei trascorsi pedemontani: torrefazione pungente, cacao per il mitico marocchino, e soprattutto burro, che solo a pensarci mi vengono in mente i croissant che tanto volevano somigliare a quelli di Parigi.
Poi arrivo a Roma e sento subito nell’aria qualcos’altro. Mare. Soprattutto nelle giornate di ponentino riusciva ad invadermi tutti i sensi e non solo l’olfatto. E poi dietro tutti gli altri odori, che ora sono di casa, ma appena emigrata mi investivano a raffiche anche un po’ troppo invadenti; proprio come i Romani, che poi impari ad amarli, ma all’inizio ti domandi perché si interessino tanto a te, quando a Torino non importava a molti chi fossi..
Dopo il mare la pizza al taglio. E chi era questa sconosciuta? Ora sicuramente saranno fioriti gli spacci anche in patria, ma nel 2001 la pizza al taglio a Torino proprio non si vedeva. Qui ogni isolato ha la sua personale rivendita. Tutte incredibilmente simili e non solo per le piastrelle lucide e i neon tubolari. Sul marciapiede arriva sempre quello strano incontro di pasta poco lievitata e piastra calda a cui si è incollata la mozzarella. Niente da fare. Per quanto si cammini in fretta, appena ti allontani dal cerchio di azione di una porta aperta, entri subito nel raggio di un’altra. Fortunatamente negli ultimi anni molte pizzerie al taglio hanno aggiunto anche felafel e kebab, così tanto per variare…
Insomma, l’impatto dei primi periodi romani sulle mie nari è stato un po’ traumatico, aggravato da effluvi di supplì, fiori di zucca e filetti di baccalà lasciati morire lentamente in oli da sale di quinta visione. Ma all’inizio la mia vita rimbalzava fra Tiburtina e Tuscolana, due patrie del centro commerciale e dei negozi fotocopia. Poi cambio lavoro e da Cinecittà mi ritrovo in centro, prima al Ghetto e poi in via dei Giubbonari.
E così inizio a capire Roma e a pensare che forse a Torino non tornerò tanto facilmente. Prima mattina su via Santa Maria del Pianto, dal Portico di Ottavia a via Arenula: dal centro della strada di sanpietrini, uno dopo l’altro, il gulash della Taverna del Ghetto, la pizza storica di Franco e Cristina, il miglior caffè della zona al bar Totò, la torta di ricotta e visciole della storica pasticceria d’angolo e poi il forno Kasher: un susseguirsi di profumi inconfondibili, inebrianti, crudeli alle otto del mattino. E da lì tutti i giorni quasi ad occhi chiusi, perché al massimo potevano sommarsi il bagnato nei giorni di pioggia oppure odori lontani nei giorni di vento forte, ma la sequenza, quella restava e diventava sempre più mia. Assieme alla città.
Dopo il Ghetto largo dei Librari, la piazzetta trapezoidale su via dei Giubbonari, quella con in fondo incastrata la facciata di una chiesetta che sembra che ce l’abbiano spinta a forza lì in mezzo. E tutti altri profumi, scanditi di facciata in facciata, dal mattino alla sera. Odori diversi rispetto al Ghetto, nei vicoli attorno a Campo dei Fiori, dove resiste qualche vecchio profumo che riesce ancora ad imporsi in mezzo ad esalazioni di ogni tipo che si uniformano sulla piazza, dai panini in serie alle ormai note pizze al taglio.
Così ti si svela Roma quando passi fra i banchi del mercato al mattino presto: il sedano fresco su tutto e poi le spezie, i fiori, le arance, fino al basilico. I colori e le ceste vengono dopo, così come i richiami dei venditori. Sulle scale per salire in ufficio il buongiorno della canna fumaria del Forno Roscioli, con pane, pizza, frappe, tortine. Lievito, vaniglia, cannella, crosta scura, formaggio fuso. Tutta la giornata a distinguere le essenze e a riconoscere gli ingredienti. Quasi una scommessa con me stessa, perché durante le feste si prepara qualche dolce particolare che non sempre mi è familiare.
Dopo le cinque del pomeriggio ecco l’olio del Filettaro che inizia a friggere. Per qualche mezz’ora (poche purtroppo), il baccalà e i fiori di zucca “friccicano” allegri su su fino alle finestre, con l’olio che non sembra ancora troppo sfruttato. Più tardi cambia odore, vira verso il rancido, ma non importa, sono già altrove ad annusare altri angoli. (foto Nessundove)
E mi accorgo che non sarà un caso che io sia finita in questa città, dove passo le ore a fiutare l’aria come un cane da trifola, e che forse è stato un forte vento fra lo scirocco e il libeccio, anni fa, a portarmi a Torino qualche sentore che poi ho deciso di seguire.